Mangiare meglio per lavorare meglio: il cibo sano diventa leva di produttività

Che il benessere parta da ciò che mangiamo non è una novità. Ma oggi c’è di più: si è scoperto che una corretta alimentazione in azienda non incide solo sulla salute, ma anche sulla produttività e, di riflesso, sui bilanci. A sostenerlo è uno studio pubblicato su Occupational Health Science, secondo cui i lavoratori che hanno accesso a pasti sani e bilanciati mostrano minor stress, maggiore energia e migliori performance decisionali. Insomma, il piatto giusto fa bene al cervello, oltre che al corpo.


Dallo stress alla produttività: la rivoluzione della pausa pranzo

Secondo l’analisi condotta su 228 dipendenti, chi trova in azienda opzioni alimentari equilibrate è più concentrato, commette meno errori e affronta meglio i picchi di lavoro. Gli alimenti ricchi di nutrienti, spiegano gli esperti, potenziano memoria e attenzione, mentre una dieta scorretta aumenta stanchezza e cali di rendimento. Il risultato? Un impatto diretto non solo sulla produttività giornaliera, ma anche sulle performance aziendali di lungo periodo.

È per questo che il tradizionale modello della “mensa aziendale” sta lasciando spazio a soluzioni più evolute: ristorazione collettiva di qualità, tracciabilità delle materie prime e ambienti progettati come spazi di welfare.


Il caso Pedevilla: dalla pausa pranzo alla leva strategica

Tra le realtà italiane che hanno interpretato questo cambio di paradigma c’è Pedevilla, gruppo tricolore a conduzione familiare che da oltre cinquant’anni opera nella ristorazione aziendale, scolastica e sanitaria. Nel 2024 ha servito 6,6 milioni di pasti, con 117 clienti attivi in tutta Italia, oltre 1.100 collaboratori e un fatturato superiore ai 64 milioni di euro.

La strategia è chiara: cucina interna, materie prime selezionate con filiera corta, spazi condivisi pensati come hub sociali e forte attenzione alla sostenibilità. Non a caso, 90 ristoranti sono già plastic-free, grazie a investimenti per oltre 810mila euro in packaging ecologico. Una scelta che trasforma la pausa pranzo in strumento di welfare e di efficienza organizzativa.


Un investimento che rende sei volte tanto

Non si tratta solo di benessere: i numeri raccontano una storia di ritorno economico. Secondo una ricerca pubblicata sull’American Journal of Health Promotion, ogni euro speso in programmi aziendali per la salute – alimentazione compresa – genera un ritorno medio di 5,8 euro. A confermarlo anche un’indagine europea condotta su oltre 11mila lavoratori: ambienti con politiche nutrizionali strutturate non solo aumentano la produttività, ma riducono assenteismo e calo di performance.


Italia in prima linea?

Eppure, nelle PMI europee le politiche alimentari aziendali sono ancora poco diffuse. Uno studio su BMC Public Health evidenzia un enorme margine di miglioramento. Per un Paese come l’Italia, dove la cultura del buon cibo è parte dell’identità, la sfida è chiara: trasformare la pausa pranzo in un volano di crescita. Un’occasione che unisce salute, sostenibilità e competitività.


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Smart working batte lo stipendio: i giovani rivoluzionano le priorità sul lavoro

Per la prima volta, nella scala delle priorità dei giovani candidati al lavoro, la possibilità di lavorare da remoto e gestire il proprio tempo supera il peso dello stipendio. È il risultato della 35ª edizione dell’indagine “Giovani & Lavoro” condotta dal Gidp (Gruppo Italiano Direttori del Personale), che raccoglie le opinioni di oltre 4.500 manager delle risorse umane, soprattutto nelle grandi imprese del Nord Italia.

Un sorpasso storico, che segna un cambio di paradigma: lo smart working non è più un “benefit”, ma un diritto percepito, al punto da superare retribuzione e bonus come elemento decisivo al momento del colloquio. Seguono, a distanza, altre richieste come chiarezza sulle mansioni e percorsi di crescita.


Flessibilità prima di tutto

Fino a un anno fa la flessibilità occupava il terzo posto nella lista dei desideri, dietro stipendio e benefit. Oggi il trend si è ribaltato. “È la prova che il concetto di ‘buon lavoro’ sta cambiando rapidamente”, osserva la ricerca. I giovani chiedono autonomia organizzativa, equilibrio vita-lavoro e senso del proprio ruolo, prima ancora di trattare il pacchetto economico. Un approccio che le aziende, però, sembrano recepire solo in parte.


Generazioni a confronto: il vero stress test

Oltre alla richiesta di flessibilità, emerge un altro nodo: la convivenza intergenerazionale. Il 90% delle aziende ospita almeno tre generazioni diverse, con inevitabili divergenze su comunicazione, aspettative di carriera, uso del digitale e visione del work-life balance. Nonostante questo, solo il 23,7% delle imprese ha avviato programmi strutturati di mentorship per favorire l’integrazione. “La convivenza tra generazioni è il vero stress test per le imprese italiane – afferma Marina Verderajme, presidente di Gidp –. Dove manca il confronto, si crea frammentazione; dove funziona, si cresce meglio”.


Il punto di vista delle aziende

“Più che smart working, i giovani ci chiedono flessibilità”, conferma Domenico Santoro, direttore del personale di Air Liquide. L’azienda ha introdotto il lavoro agile già nel 2018 e oggi consente fino al 50% di tempo da remoto, con ampia libertà di organizzazione. Ma non basta: “Le nuove generazioni cercano senso, sviluppo individuale e formazione continua”, spiega Santoro, sottolineando l’impegno in programmi di mentoring per integrare senior e junior.


Competenze, l’altra emergenza

Al tema organizzativo si somma il mismatch tra domanda e offerta di competenze. Il 26,2% delle imprese dichiara di dover formare internamente i neolaureati subito dopo l’assunzione, mentre il 23% fatica a trovare diplomati tecnici pronti all’ingresso. Solo il 15% afferma di non avere problemi nel reperimento di profili junior.


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Criptovalute, l’Europa davanti al bivio: regolamentare o restare indietro

C’è un momento in cui la storia economica chiede di scegliere: cambiare o restare ancorati al passato. Per la finanza digitale, quel momento è arrivato. A dimostrarlo è il Genius Act, la nuova normativa statunitense dedicata alla regolamentazione delle stablecoin, che promette di trasformare il settore, imponendo trasparenza e garanzie per i consumatori.

L’Europa, invece, rischia di arrivare ancora una volta in ritardo. Nonostante i progressi introdotti con il regolamento Micar e l’attuazione della Travel Rule, il vecchio continente continua a oscillare tra prudenza e timore. Il punto è che le criptovalute non sono un pericolo da demonizzare, ma una realtà da governare. E le stablecoin, in particolare, dimostrano quanto sia urgente adottare regole moderne e flessibili, senza soffocare l’innovazione.


Perché le stablecoin non sono “moneta tossica”

A differenza di altre criptovalute, le stablecoin devono la loro stabilità all’ancoraggio a valute tradizionali, come il dollaro, e alla copertura con asset liquidi e a basso rischio. Il Genius Act, infatti, prevede obblighi rigorosi: divieto di investire le riserve in operazioni speculative, trasparenza nei bilanci, audit indipendenti e controlli costanti. Una cornice che non frena il mercato, ma lo rende più sicuro e competitivo.

Non basta: la normativa statunitense si pone anche l’obiettivo di rafforzare il ruolo del dollaro sui mercati globali, aumentando l’attrattività del debito e stabilizzando i tassi di interesse. Una strategia che unisce tutela dei consumatori e vantaggi macroeconomici.


Il paradosso europeo

Mentre Washington accelera, l’Europa rischia l’ennesimo passo falso. Eppure, il contesto normativo non è fermo: il regolamento Micar rappresenta una best practice in termini di vigilanza e autorizzazione degli operatori, mentre il recepimento della Travel Rule nel nostro ordinamento, con il D.Lgs. 204/2024, rafforza i presidi contro il riciclaggio e le operazioni sospette. Ma il problema è nella rigidità delle regole: se non verranno bilanciate da strumenti flessibili, il mercato rischia di soffocare, spingendo l’innovazione altrove.


Il peso dei numeri

I dati parlano chiaro: al 31 dicembre 2024, i 166 Virtual Asset Service Provider registrati presso l’OAM gestivano cripto-attività per oltre 2,6 miliardi di euro. Un segmento in crescita che, se governato, potrebbe ridurre tempi e costi delle transazioni, offrendo vantaggi enormi a imprese e consumatori. Non si tratta di un “pozzo oscuro”, ma di una leva strategica che può rilanciare competitività e inclusione finanziaria.


La domanda è semplice e cruciale: chi ha paura delle cripto? Se l’Europa non saprà superare il pregiudizio ideologico e affrontare il tema con regole trasparenti e proporzionate, il rischio è quello di abdicare a un ruolo attivo nella finanza globale. Una scelta che, in tempi di rivoluzione digitale, non possiamo permetterci.


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Controlli in malattia, la Cassazione mette un freno: “Niente detective senza sospetti concreti”

Pedinare un lavoratore in malattia per verificare se rispetta le fasce di reperibilità? Non è consentito, a meno che non ci siano indizi seri e circostanziati di comportamenti illeciti. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 23578/2025, confermando la decisione della Corte d’appello che aveva annullato un licenziamento disciplinare fondato su un report investigativo.

Il caso nasce dalla scelta di un datore di lavoro di incaricare un’agenzia investigativa, convinto che il dirigente in malattia non rispettasse gli obblighi di reperibilità. L’attività, durata sedici giorni – comprese le festività natalizie – si è tradotta in un pedinamento costante, con controlli dal mattino alla sera e monitoraggio non solo del dipendente, ma anche dei familiari e di terzi. Un’invasione della sfera privata che, secondo i giudici, non trova giustificazione.

La Corte territoriale, riformando la sentenza di primo grado, ha escluso la “giusta causa” e ha riconosciuto al dirigente le indennità dovute, sottolineando che il sospetto di illecito era del tutto assente. L’ordinamento, infatti, offre strumenti meno invasivi, come le visite fiscali Inps, sufficienti a verificare il rispetto delle fasce orarie.

Gli ermellini hanno confermato questa linea, richiamando precedenti giurisprudenziali e ribadendo che i controlli difensivi sono ammessi solo se proporzionati e limitati al necessario, senza trasformarsi in sorveglianza continua della vita privata. In caso contrario, le prove raccolte non solo sono inutilizzabili, ma rendono illegittimo il licenziamento.

Il principio non è nuovo, ma la sua applicazione resta problematica. Per i datori di lavoro, il messaggio è chiaro: anche di fronte a fondati motivi disciplinari, il diritto alla riservatezza del lavoratore prevale su controlli indiscriminati. Il rischio, altrimenti, è vedere annullati provvedimenti che si ritenevano solidi, con conseguenze economiche e reputazionali pesanti.


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Crolla il numero degli artigiani: il settore ha definitivamente alzato bandiera bianca?

Negli ultimi 10 anni il numero degli artigiani[1] presenti nel nostro Paese ha subito un crollo verticale di quasi 400mila unità. Se nel 2014 ne contavamo 1,77 milioni, l’anno scorso la platea è scesa a 1,37 milioni (-22 per cento) (vedi Graf. 1). Pertanto, possiamo affermare con grande preoccupazione che in due lustri quasi un artigiano su quattro ha gettato la spugna. Anche nell’ultimo anno la contrazione è stata importante: tra il 2024 e il 2023 il numero è sceso di 72mila unità (-5 per cento).  La riduzione ha interessato tutte le regioni d’Italia, nessuna esclusa.   Nell’ultimo decennio le aree più colpite da questa “emorragia” sono state le Marche (-28,1 per cento), l’Umbria (-26,9), l’Abruzzo (- 26,8) e il Piemonte (-26). Il Mezzogiorno, invece, è stata la ripartizione geografica che ha subito le “perdite” più contenute.  Grazie, in particolare, agli investimenti nelle opere pubbliche legati al PNRR e agli effetti positivi derivanti dal Superbonus 110 per cento, il comparto casa ha “frenato” la caduta del numero complessivo degli artigiani di questa ripartizione geografica. La denuncia è sollevata dall’Ufficio studi della CGIA che ha elaborato i dati dell’INPS e, per quanto concerne il numero delle imprese artigiane attive, di Infocamere/Movimprese.

  • Sono a rischio le riparazioni/manutenzioni

Già oggi quando si rompe una tapparella, il rubinetto del bagno perde acqua o dobbiamo sostituire l’antenna della Tv trovare un professionista del settore è molto difficile, figuriamoci fra qualche anno. A seguito del progressivo invecchiamento della popolazione artigiana e la corrispondente contrazione dei giovani che si avvicinano a questi mestieri, anche a seguito del calo demografico, è molto probabile che entro un decennio reperire sul mercato un idraulico, un fabbro, un elettricista o un serramentista in grado di eseguire un intervento di riparazione/manutenzione presso la nostra abitazione o nel luogo dove lavoriamo sarà un’operazione difficilissima.

  • Crollo dovuto anche a fusioni e acquisizioni di impresa

Va comunque segnalato che questa riduzione in parte è anche riconducibile al processo di aggregazione/acquisizione che ha interessato alcuni settori dopo le grandi crisi 2008/2009, 2012/2013 e 2020/2021. Purtroppo, questa “spinta” verso l’unione aziendale ha compresso la platea degli artigiani, ma ha contribuito positivamente ad aumentare la dimensione media delle imprese, spingendo all’insù anche la produttività di molti comparti; in particolare, del trasporto merci, del metalmeccanico, degli installatori impianti e della moda.

  • Più avvocati che idraulici

Negli ultimi decenni tante professioni ad alta intensità manuale hanno subito una svalutazione culturale; questo processo ha allontanato molti ragazzi dal mondo dell’artigianato. Il tratto del profondo cambiamento avvenuto, ad esempio, è riscontrabile dal risultato che emerge dalla comparazione tra il numero di avvocati e di idraulici presenti nel nostro Paese. Se i primi sono poco più di 233mila unità[2], si stima che i secondi siano “solo” 165mila[3].  E’ evidente che la mancanza di tante figure professionali di natura tecnica siano imputabili a tante criticità. A nostro avviso le principali sono: lo scarso interesse che molti giovani hanno nei confronti del lavoro manuale; la mancata programmazione formativa verificatasi in tante regioni del nostro Paese e l’incapacità di migliorare/elevare la qualità dell’orientamento scolastico che, purtroppo, è rimasto ancorato a vecchie logiche novecentesche. Ovvero, chi al termine delle scuole medie inferiori ha dimostrato buone capacità di apprendimento è “consigliato” dal corpo docente a iscriversi a un liceo. Chi, invece, fatica a stare sui libri viene “invitato” a intraprendere un percorso di natura tecnica o, meglio ancora, professionale; creando, di fatto, studenti di serie a, di serie b e, in molti casi, anche di serie c.

  • Le cause delle chiusure

L’invecchiamento progressivo della popolazione artigiana, provocato in particolar modo anche da un insufficiente ricambio generazionale, la feroce concorrenza esercitata nei decenni scorsi dalla grande distribuzione e in questi ultimi anni in particolare dal commercio elettronico, il peso della burocrazia, il boom del costo degli affitti e delle tasse nazionali/locali hanno costretto molti artigiani ad alzare bandiera bianca. Una parte della “responsabilità”, comunque, è ascrivibile anche ai consumatori che in questi ultimi tempi hanno cambiato radicalmente il modo di fare gli acquisti, sposando la cultura dell’usa e getta, preferendo il prodotto fatto in serie e consegnato a domicilio. La calzatura, il vestito o il mobile fatto su misura sono ormai un vecchio ricordo; il prodotto realizzato a mano è stato scalzato dall’acquisto scelto sul catalogo on-line o preso dallo scaffale di un grande magazzino.

  • Rimettere al centro l’istruzione professionale

Negli ultimi 45 anni c’è stata una svalutazione culturale spaventosa del lavoro manuale. L’artigianato è stato “dipinto” come un mondo residuale, destinato al declino e per riguadagnare il ruolo che gli compete ha bisogno di robusti investimenti nell’orientamento scolastico e nell’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali che in passato sono stati determinanti nel favorire lo sviluppo economico del Paese. Oggi, invece, sono percepiti dall’opinione pubblica come scuole di serie b e in certi casi addirittura di serie c. Per alcuni, infatti, rappresentano una soluzione per parcheggiare per qualche anno i ragazzi che non hanno una grande predisposizione allo studio. Per altri costituiscono l’ultima chance per consentire a quegli alunni che provengono da insuccessi scolastici, maturati nei licei o nelle scuole tecniche, di conseguire un diploma di scuola media superiore. E nonostante la crisi e i problemi generali che attanagliano l’artigianato, non sono pochi gli imprenditori di questo settore che da tempo segnalano la difficoltà a trovare personale disposto ad avvicinarsi a questo mondo.

  • Parrucchieri, estetiste, gelatai, pizzerie per asporto e informatici sono in controtendenza

Non tutti i settori artigiani hanno subito la crisi. Quelli del benessere e dell’informatica presentano dati in controtendenza. Nel primo, ad esempio, si continua a registrare un costante aumento degli acconciatori, degli estetisti e dei tatuatori. Nel secondo, invece, sono in decisa espansione i sistemisti, gli addetti al web marketing, i video maker e gli esperti in social media. Va altrettanto bene anche il comparto dell’alimentare, con risultati significativamente positivi per le gelaterie, le gastronomie e le pizzerie per asporto ubicate, in particolare, nelle città ad alta vocazione turistica.

  • Istituire un reddito di gestione delle botteghe artigiane

I piccoli negozi e le botteghe artigiane giocano un ruolo fondamentale nei centri storici, nelle piccole comunità e nei borghi, contribuendo all’identità culturale, all’economia locale e al mantenimento del patrimonio storico. Queste attività, spesso situate in edifici storici, arricchiscono l’ambiente urbano con la loro presenza e le loro creazioni, attirando turisti e residenti interessati alla tradizione e all’artigianato di qualità. Va ricordato, infine, che la decisa riduzione del numero degli abitanti che da qualche decennio sta interessando molte aree del Paese (territori di montagna, zone collinari, paesi di provincia, etc.), ha causato una forte contrazione del numero dei negozi/botteghe artigiane. Un fenomeno molto complesso che ha deteriorato il tessuto urbano e la qualità della vita di molti contesti territoriali. Per questo sarebbe opportuno introdurre per legge un “reddito di gestione delle botteghe commerciali e artigiane” per chi (giovane o meno) gestisce o apre una attività, compatibile con la residenzialità, nei centri minori (fino a 10.000 abitanti).

  • La politica sta correndo ai ripari, in arrivo la riforma della legge quadro n° 443 del 1985

A quarant’anni dall’entrata in vigore della legge quadro n° 443, il Parlamento ha avviato da alcuni mesi un percorso di riforma dell’artigianato destinata a superare i vincoli normativi che limitano l’attività di oltre 1,2 milioni di imprese artigiane presenti nel Paese (vedi Graf. 2). Tra le novità previste, vi è la possibilità, per quelle che operano nel settore alimentare, di vendere direttamente al pubblico i prodotti di propria produzione. Altro aspetto significativo riguarda la maggiore flessibilità nella costituzione dei consorzi, che potranno includere anche le Pmi non artigiane. Di rilievo è inoltre la proposta di istituire un fondo biennale da 100 milioni di euro per facilitare l’accesso al credito, con il supporto di Confidi e della nuova Artigiancassa. Infine, l’innalzamento del tetto occupazionale da 18 a 49 addetti consentirebbe all’Italia di allinearsi alle normative sull’artigianato presenti in gran parte dei 27 Paesi dell’UE. Riportiamo più sotto alcuni punti che dovrebbero qualificare la riforma:

  •  incentrare la disciplina sulla figura dell’imprenditore artigiano;
  •  rivedere i vincoli societari relativi all’impresa artigiana;
  • definire il perimetro di attività del settore;
  • valorizzare il ruolo formativo dell’artigiano/imprenditore;
  • istituire una commissione consultiva per l’artigianato presso il Ministero del Made in Italy.
  • Nell’ultimo anno le chiusure hanno interessato, in particolare, la dorsale adriatica: Ancona, Ravenna, Ascoli Piceno e Rimini

Tra il 2024 e il 2023 la provincia d’Italia che ha subito la contrazione più importante del numero di artigiani è stata Ancona con il -9,4 per cento (in valore assoluto pari a -1.254 persone). Seguono Ravenna e Ascoli Piceno entrambe con il -7,9 per cento.  Se la provincia romagnola ha subito una riduzione di 952 artigiani, quella marchigiana di 535. Al quarto posto scorgiamo Rimini con il -6,9 per cento (-835) e al quinto, a pari merito, Terni e Reggio Emilia con il -6,8 per cento. Se il nel capoluogo umbro abbiamo perso 384 unità, in quello emiliano 1.464. Le diminuzioni più contenute, invece, hanno interessato quasi esclusivamente le province del Mezzogiorno. Le meno colpite sono state Crotone e Ragusa ambedue con il -2,7 per cento. Se la realtà calabrese ha visto scendere lo stock di artigiani di 78 unità, quella siciliana di 164.

[1] La categoria è costituita da titolari, soci e collaboratori familiari. Per i dati dell’anno 2014 si fa riferimento al comunicato INPS del 2024 che riprende la serie storica sino ai 9 anni precedenti. I dati dal 2015 al 2024 fanno invece riferimento alla pubblicazione di quest’anno (giugno 2025) e al relativo database ricostruito per il periodo 2015-2024.

[2] “Rapporto sull’avvocatura 2025”, a cura della Cassa forense in collaborazione con il Censis, aprile 2025.

[3] Dato riportato dalle principali organizzazioni sindacali di categoria.


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Fuga dal lavoro: entro il 2029 dovremo sostituire 3 milioni di addetti che andranno in pensione

Tra il 2025 e il 2029, si stima che poco più di 3 milioni di lavoratori italiani (pari al 12,5 per cento circa del totale nazionale) lasceranno definitivamente gli uffici e le fabbriche per andare in pensione. La quasi totalità lo farà per questo motivo; tuttavia, una piccola minoranza non timbrerà più il cartellino anche per altri motivi, quali il ritiro volontario, la perdita dell’impiego, l’emigrazione all’estero o il passaggio dal lavoro dipendente a quello autonomo e viceversa.

Di questi 3 milioni, 1.608.300 sono attualmente dipendenti del settore privato (pari al 52,8 per cento del totale da sostituire), 768.200 lavorano nell’Amministrazione pubblica (25,2 per cento) e 665.500 sono lavoratori autonomi (21,9 per cento).

Questi dati non lasciano alcun dubbio: nel giro di qualche anno assisteremo a una vera e propria “fuga” da scrivanie e catene di montaggio. Un “esodo” mai visto fino a ora, con milioni di persone che passeranno dal mondo del lavoro all’inattività in pochissimo tempo con conseguenze sociali, economiche ed occupazionali di portata storica per il nostro Paese.

Lo sanno bene gli imprenditori che già adesso faticano a trovare personale disponibile a recarsi in fabbrica o in cantiere. Figuriamoci fra qualche anno, quando una parte importante della platea dei lavoratori attivi lascerà l’occupazione, in particolare per raggiunti limiti di età.

A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA che ha estrapolato i dati emersi dalla periodica elaborazione realizzata dal Sistema Informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.[1]

  • Le uscite più numerose in Lombardia, Lazio e Veneto

In valore assoluto, le regioni più coinvolte dalla domanda di sostituzione saranno quelle, ovviamente, dove la popolazione lavorativa è più numerosa e tendenzialmente ha una età media più elevata. Al primo posto scorgiamo la Lombardia che sarà chiamata a rimpiazzare 567.700 lavoratori. Seguono il Lazio con 305.000 e il Veneto con 291.200. In coda alla graduatoria notiamo l’Umbria con 44.800, la Basilicata con 25.700 e, infine, il Molise con 13.800 unità. Come abbiamo riportato più sopra, in termini percentuali questo fenomeno interesserà, in particolare, il lavoro dipendente privato. Tra le maestranze private quelle lombarde saranno le più interessate d’Italia: sul totale regionale da rimpiazzare incideranno per il 64,6 per cento. Seguono quelle dell’Emilia Romagna (58,6 del totale regionale) e quelle del Veneto (56,5). I meno coinvolti, invece, saranno i lavoratori dipendenti privati sardi (il 38,5 per cento del totale regionale), i molisani (38,4) e, infine, i calabresi (36,6). In queste ultime regioni, evidentemente, la maggioranza degli addetti da sostituire sarà riconducibile alle categorie dei dipendenti pubblici e dei lavoratori autonomi.

  • Sette rimpiazzi su 10 interesseranno i servizi

Di questi 3 milioni di addetti che entro i prossimi 5 anni lasceranno il posto di lavoro, quasi 2.205.000 (il 72,5 per cento del totale da sostituire) sono occupati nei servizi.  Altri 725.900 nell’industria (23,8 per cento) a cui vanno sommati 111.200 (3,6 per cento) occupati nell’agricoltura. In altre parole, a livello nazionale oltre 7 sostituzioni su 10 interesseranno il settore di servizi, con uscite particolarmente importanti nel commercio (379.600 unità), nella sanità pubblica/privata (360.800) e nella Pubblica Amministrazione (331.700). Nell’industria, infine, spicca il numero di rimpiazzi a cui dovrà essere sottoposto il comparto delle costruzioni (179.300).

  • Un paese sempre più vecchio: le aziende si ruberanno i dipendenti migliori

In stretta relazione alle uscite dal lavoro per raggiunti limiti di età c’è, ovviamente, il progressivo invecchiamento dei dipendenti privati presenti nel nostro Paese. A tal proposito è interessante analizzare l’andamento dell’indice di anzianità. Se nel 2021 il tasso era del 61,2, nel 2022 è aumentato al 62,7 per attestarsi nel 2023 al 65,2 (+ 4 punti in soli due anni). Questo vuol dire che, rispetto all’ultima rilevazione, in Italia ogni 100 dipendenti sotto i 35 anni ce ne sono 65 che hanno oltre 55 anni. Le cause di questa tendenza sono numerose – pochi ingressi nel mercato del lavoro dei giovani rispetto alle fasce anagrafiche che superano la soglia dei 55 anni e una più prolungata permanenza nei luoghi di lavoro degli addetti in età avanzata – e tutte contribuiscono a innalzare questo indicatore verso valori di criticità. Senza contare che nel nostro Paese da sempre la domanda e l’offerta faticano a incrociarsi. Spesso i giovani che sono alla ricerca di un’occupazione presentano un deficit educativo ed esperienziale notevole rispetto alle abilità professionali richieste dalle attività economiche. Tra qualche anno, quando milioni di lavoratori con elevata esperienza e professionalità dovranno essere sostituiti, gli imprenditori, non trovandoli sul mercato, non avranno alternativa.  Dovranno contendersi i migliori dipendenti dei concorrenti, offrendo a questi ultimi incrementi salariali significativi. Dando luogo a forme più o meno simili al ricatto, dove i titolari d’azienda e i dipendenti più ricercati cercheranno di prevalere per ottenere il massimo vantaggio personale, spesso in modo poco onorevole.

  • L’anzianità delle maestranze è un problema soprattutto per gli imprenditori delle regioni più piccole

Ad oggi, la regione che presenta l’indice di anzianità dei dipendenti privati più elevato è la Basilicata (82,7). Seguono la Sardegna (82,2), il Molise (81,2), l’Abruzzo (77,5) e la Liguria (77,3). Il dato medio nazionale, come ricordavamo più sopra, è pari al 65,2. Le regioni meno “colpite” da questo fenomeno – anche se già da alcuni anni sono costrette comunque a fare i conti con questa grave criticità – sono l’Emilia Romagna (63,5), la Campania (63,3), il Veneto (62,7), la Lombardia (58,6) e il Trentino Alto Adige (50,2).

[1] Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine (2025-2029). Scenari per l’orientamento e la programmazione della formazione.


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Decreto giustizia, l’UNCC avverte: “Efficienza sì, ma non a scapito di diritti e garanzie”

ROMA – Dopo l’analisi dello schema preliminare, l’Unione Nazionale delle Camere Civili ha esaminato nel dettaglio il decreto-legge 8 agosto 2025 n. 117, approvato dal Governo per centrare gli obiettivi del PNRR entro il 30 giugno 2026. Il presidente Alberto Del Noce accoglie con favore la proroga dell’aumento delle competenze dei giudici di pace, definendola “una scelta saggia che evita applicazioni affrettate e insostenibili”.

L’UNCC esprime anche serie preoccupazioni per il metodo legislativo adottato, l’ampio ricorso al decreto-legge e le possibili ricadute su principi costituzionali come il giudice naturale e l’autonomia del CSM. “La rapidità non può essere perseguita sacrificando qualità, garanzie e diritti” avverte Del Noce.

Pur apprezzando l’intento di accelerare la definizione dei procedimenti e di sostenere gli uffici giudiziari in maggiore difficoltà, -commenta il Presidente- occorre evidenziare alcune criticità che richiedono un’attenta e approfondita riflessione“.

  • Profili di incostituzionalità legati alle deroghe sui requisiti di professionalità e anzianità dei magistrati, ai poteri straordinari dei capi degli uffici e alle udienze da remoto con limitata possibilità di opposizione.

“L’uso dello strumento del decreto-legge per interventi incisivi sull’organizzazione giudiziaria e sul processo civile rischia di comprimere il necessario confronto con gli operatori del diritto, compresa l’Avvocatura. Le misure emergenziali devono restare tali, evitando che si consolidino prassi permanenti senza un dibattito parlamentare approfondito. Alcune misure (es. proroghe per sedi giudiziarie, estensione funzioni magistrati ausiliari, modifiche al codice di procedura civile) hanno effetti di medio-lungo periodo o strutturali, difficilmente qualificabili come “urgenti” nel senso dell’art. 77 Cost.

Ma si sono altri profili critici sotto il profilo costituzionale. Come, ad es. l’applicazione di magistrati del massimario alle sezioni civili in deroga ai requisiti di professionalità e anzianità e con possibile compressione delle prerogative di valutazione del CSM; poteri straordinari ai capi degli uffici con deroga ai criteri di assegnazione e riassegnazione fascicoli, in deroga alle procedure tabellari (ciò potrebbe incidere sul principio del giudice naturale precostituito per legge e sull’autonomia organizzativa assicurata dal CSM; la possibilità di derogare ai criteri di assegnazione e riassegnazione delle cause potrebbe comportare una designazione del giudice successiva all’insorgenza della controversia, in potenziale contrasto con il principio del giudice naturale; gli incentivi economici e punteggi aggiuntivi per i magistrati che accettano trasferimenti o applicazioni a distanza potrebbero essere contestati come disparitari rispetto ai colleghi che svolgono analoghe funzioni in sede ordinaria, senza che la differenza di trattamento sia pienamente giustificata; le udienze da remoto obbligatorie o con limitata possibilità di opposizione possono essere viste come limitative del diritto delle parti ad una discussione orale e in presenza, specie nei casi in cui la valutazione sulla “fondatezza” della richiesta di udienza fisica è rimessa al giudice applicato a distanza”.

  • Applicazioni e trasferimenti di magistrati a distanza, percepiti come misure orientate agli obiettivi statistici più che alla giustizia sostanziale, con il rischio di stabilizzare soluzioni emergenziali nate in contesti eccezionali come la pandemia.

“L’ampliamento delle possibilità di applicazione, anche a distanza, e la deroga ai criteri di professionalità e anzianità, pur finalizzati allo smaltimento dell’arretrato, suscitano forte preoccupazione. L’Avvocatura osserva con allarme un’organizzazione giudiziaria sempre più orientata al raggiungimento di obiettivi meramente statistici e sempre meno alla realizzazione della giustizia sostanziale. Pur consapevole che, con lo strumento del decreto-legge e la presumibile pacifica conversione, tali misure diverranno definitive, l’UNCC ribadisce la propria ferma contrarietà a qualsiasi stabilizzazione di interventi eccezionali, come già avvenuto con la trattazione a distanza, introdotta in via emergenziale durante il Covid e poi resa strutturale. In questo scenario, gli avvocati – consapevoli dell’elevata incertezza che può derivare da decisioni assunte da chi non ha mai interloquito con le parti né conosciuto direttamente i fatti – dovranno intensificare l’impegno nella promozione di strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. Sempre più ci rendiamo conto che il processo deve essere l’extrema ratio: ogni volta che è possibile, è preferibile negoziare, nel rispetto del diritto, con l’assistenza di avvocati”.

  • Deroghe ai criteri tabellari di assegnazione fascicoli, che – senza adeguati controlli – potrebbero minare imparzialità ed equilibrio del sistema.

“Le deroghe ai carichi esigibili e ai criteri tabellari di assegnazione dei fascicoli, se non accompagnate da trasparenza e garanzie di controllo, possono incidere sull’equilibrio del sistema e sull’imparzialità percepita. L’Avvocatura chiede di essere coinvolta nella fase di predisposizione dei piani straordinari”.

  • Rinvii di riforme attese, come il Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie.

“Lo slittamento dell’entrata in vigore del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie e di altre riforme ordinarie, pur motivato dall’urgenza PNRR, rischia di rinviare ancora una volta interventi strutturali attesi da anni”.

  • Impatto sulle tutele dei diritti, in particolare per le modifiche agli accertamenti tecnici preventivi in materia previdenziale e alle procedure di pagamento ex legge Pinto.

“Le modifiche agli accertamenti tecnici preventivi in materia previdenziale meritano un monitoraggio attento per verificarne l’impatto sul diritto di difesa. Parimenti, le nuove regole sui pagamenti degli indennizzi ex legge Pinto, pur tese a ridurre tempi e contenzioso, devono essere accompagnate da forme di informazione capillare per evitare che i cittadini incorrano in decadenze non consapevoli”.

L’UNCC ribadisce infine la disponibilità a collaborare con le istituzioni per soluzioni “strutturali e durature” che uniscano efficienza e rispetto dei diritti fondamentali, difesa e indipendenza della magistratura.


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Nel 2024 la PA non ha pagato 8 miliardi ai nostri fornitori

Al netto degli importi sospesi e non liquidabili, l’anno scorso la nostra Pubblica Amministrazione (PA) ha ricevuto dai propri fornitori privati 198 miliardi di euro di richieste di pagamento. Di questo importo, entro marzo 2025 sono stati liquidati 189,85 miliardi.  Pertanto, nelle transazioni commerciali tra pubblico e privati, questi ultimi non hanno incassato ben 8,15 miliardi. A denunciarlo è l’Ufficio studi della CGIA che ha elaborato questi dati dopo aver letto la nota pubblicata lo scorso 1° luglio sul proprio sito internet dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF)[1].

È evidente che a destare preoccupazione tra gli imprenditori italiani non siano soltanto i dazi imposti dall’Amministrazione Trump, ma anche quelli di natura interna presenti nel nostro Paese che rallentano l’economia e ostacolano lo sviluppo. Alcuni esempi? Quando, ad libitum, il committente pubblico decide di non onorare le scadenze di pagamento previste nel contratto o di liquidare i fornitori con ritardi del tutto ingiustificati. E sebbene negli ultimi anni la nostra PA abbia ridotto notevolmente i tempi con cui salda le fatture ricevute[2], i mancati pagamenti, però, continuano a essere un malcostume ancora molto diffuso nel nostro Paese.

  • Siamo maglia nera in Europa

La conferma giunge anche dalla lettura delle statistiche che periodicamente pubblica l’Eurostat. Negli ultimi dati presentati ad aprile di quest’anno, l’Italia continua a essere maglia nera in Europa. Lo stock complessivo dei debiti commerciali di parte corrente è pari a 58,7 miliardi di euro. Sebbene l’importo sia leggermente in calo rispetto ai 59 miliardi riferiti al 2023, dal confronto con gli altri 27 paesi presenti in UE, il nostro score è il peggiore.  In rapporto al Pil, nel 2024 i nostri debiti commerciali ammontano al 2,7 per cento[3]. Nessun altro paese può contare su un dato più negativo. Tra i principali competitor segnaliamo che in Germania l’incidenza è dell’1,8 per cento, in Francia dell’1,5 e in Spagna solo dello 0,7. La media UE27 è dell’1,6 per cento.

  • Quando paga, però, i ritardi sono diminuiti

Se i mancati pagamenti sono ancora un grosso problema, quando paga, invece, adesso la PA lo fa con tempi molto più rapidi di un tempo. Nel 2024, per la prima volta dall’entrata in vigore della Direttiva UE contro i ritardi nei pagamenti avvenuta nel 2013, la media ponderata è scesa al di sotto dei 30 giorni. Certo, i vincoli imposti dall’UE per ottenere i finanziamenti del PNRR e l’introduzione della Piattaforma dei Crediti Commerciali (PCC) – vale a dire lo strumento digitale che ha messo in chiaro le abitudini di pagamento della PA, consentendo di verificare puntualmente dinamiche e sanzioni da comminare agli enti ritardatari – hanno dato un contributo importante a rendere i Ministeri, le società pubbliche, le Regioni, le Aziende ospedaliere e i Comuni tutti più virtuosi.

  • Molti fanno i “furbi” e risultano virtuosi anche se non lo sono

Tuttavia, la CGIA segnala almeno due “anomalie” che ormai sono diventate un modus operandi a cui ricorrono sia le piccole società pubbliche e le amministrazioni comunali minori, sia la nostra PA a livello regionale e centrale. Questo comportamento sta consentendo a tutte le amministrazioni che fanno ricorso a questi due “escamotage” di ottenere un Indice di Tempestività dei Pagamenti (ITP)[4] annuo anticipato dal segno meno e quindi rispettoso dei limiti previsti dalla legge.

  • La prima anomalia. Saldano le fatture di importo maggiore, ritardano intenzionalmente quelle minori

Come ha sottolineato anche la Corte dei Conti in una delle sue ultime relazioni[5], nelle transazioni commerciali la nostra PA sta adottando una prassi che definire “diabolica” è forse riduttivo; salda le fatture di importo maggiore entro i termini di legge, mantenendo così l’ITP entro i limiti previsti dalla norma, ma ritarda intenzionalmente il saldo di quelle con importi minori, penalizzando, così, le imprese fornitrici di prestazioni di beni e servizi con volumi bassi; cioè le piccole imprese.

  • La seconda anomalia. Decidono i funzionari della PA quando le imprese devono emettere la fattura

Da qualche tempo molti dirigenti pubblici, anche di società collegate alle regioni e agli enti locali, decidono unilateralmente quando i fornitori devono emettere la fattura. Se questi ultimi non si “attengono” a questa disposizione, lavorare in futuro per questo ente/società pubblica sarà molto difficile. Dando l’autorizzazione all’emissione della fattura solo quando l’Amministrazione dispone dei soldi per liquidarla, queste realtà pubbliche riescono a “rispettare” i tempi di pagamento, “aggirando” così le disposizioni previste dalla legge. Una forma di abuso della posizione dominante che risulta essere decisamente “ripugnante”.

  •  Soluzione? Consentire la compensazione tra i debiti fiscali e i crediti commerciali

Per risolvere questa annosa questione che sta mettendo a dura prova tantissime Pmi, per la CGIA c’è solo una cosa da fare: prevedere per legge la compensazione secca, diretta e universale tra i crediti certi liquidi ed esigibili maturati da una impresa nei confronti della PA e i debiti fiscali e contributivi che la stessa deve onorare all’erario. Grazie a questo automatismo risolveremmo un problema che ci trasciniamo da decenni che continua a minare la tenuta finanziaria di moltissime piccole e medie imprese.

  • Alcune situazioni critiche: RAP Palermo, ASP Crotone, Comune di Cosenza, ATAC e, in particolare, ANAS e GSE

Nonostante i miglioramenti e il ricorso agli “escamotage” richiamati più sopra, molte PA continuano a pagare in grave ritardo. La CGIA ha l’impressione che la situazione peggiore interessi il Mezzogiorno e, in particolare, le società controllate dagli enti locali (aziende di trasporto pubblico, società di asporto rifiuti e di servizi idrici, etc.). I dati riportati più sotto sono impietosi (vedi Tab. 1). La Risorse Ambiente Palermo (RAP), è una Spa del Comune capoluogo di regione che si occupa della raccolta di rifiuti e di igiene ambientale. Ebbene, nel 2024 ha saldato i propri fornitori con un ritardo di quasi 88 giorni rispetto ai termini previsti dalla legge. Anche l’Azienda Sanitaria di Crotone – che “colpevolmente” non ha ancora aggiornato il dato sul proprio sito internet e riporta come ultimo ITP quello relativo al 2023 – ha onorato le scadenze di pagamento sempre con 88 giorni oltre i limiti di legge. Male anche il Comune di Cosenza, l’anno scorso ha registrato un ritardo medio di 57 giorni. In grossa difficoltà anche l’ATAC di Roma, con un saldo fattura che avviene dopo 48 giorni dalla data di scadenza e l’AMAT di Palermo (società di trasporto pubblico locale) con un ritardo di 45. Da segnalare anche la performance negativa dell’ANAS. Sebbene costituisca una delle stazioni appaltanti pubbliche più importante del Paese, l’anno scorso ha onorato i propri impegni con i fornitori con 15 giorni di ritardo. Il trend, purtroppo, sta proseguendo anche nei primi due trimestri del 2025. Preoccupante anche lo score relativo all’anno in corso di un’altra grande stazione appaltante nazionale, ovvero il Gestore dei Servizi Energetici GSE SpA che nel I trimestre ha liquidato con 16 giorni di ritardo e nel II trimestre con 14. Da disapprovare anche il comportamento di alcuni ministeri (in particolare Lavoro e Salute) che nel 2024 hanno liquidato le fatture ricevute mediamente con 13 giorni di ritardo.

[1] https://www.mef.gov.it/focus/Pagamenti-PA-piu-veloci-fatture-saldate-sotto-i-30-giorni/

[2] Ricordiamo che dal 2013, a seguito del recepimento nel nostro ordinamento della normativa europea contro i ritardi di pagamento (Direttiva UE/2011/7), i tempi di pagamento nelle transazioni commerciali tra enti pubblici italiani e aziende private non possono superare di norma i 30 giorni (60 per alcune tipologie di forniture, in particolare quelle sanitarie).

[3] Dato riportato anche dalla Banca d’Italia nella “Relazione annuale 2025, pag. 143

[4] Stabilisce il ritardo/anticipo medio di pagamento ponderato tenuto dalla PA nelle transazioni commerciali con le imprese private. L’ITP è calcolato come la somma, per ciascuna fattura emessa a titolo corrispettivo di una transazione commerciale, dei giorni effettivi intercorrenti tra la data di scadenza della fattura o richiesta equivalente di pagamento e la data di pagamento ai fornitori moltiplicata per l’importo dovuto, rapportata alla somma degli importi pagati nel periodo di riferimento. Pertanto, se il dato medio annuale è anticipato dal segno meno, l’Amministrazione è virtuosa. Se, invece, l’indice è anticipato dal segno più, la stessa non lo è, rischiando così di subire dagli enti preposti delle sanzioni economiche.

[5] Relazione sul rendiconto generale dello Stato 2022, Volume I, I conti dello Stato e delle politiche di bilancio 2022, Tomo I, 28 giugno 2023.


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Ex Ilva, la doppia faccia di Taranto: salute contro acciaio, ma con la mano allo Stato

A Taranto la vicenda dell’ex Ilva si è trasformata in un caso emblematico di contraddizioni e calcoli politici. Da un lato si chiede a gran voce di spegnere per sempre gli altiforni, in nome della salute pubblica e della lotta all’inquinamento. Dall’altro, nessuno sembra disposto a rinunciare ai flussi di denaro provenienti dallo Stato: cassa integrazione a oltranza, prepensionamenti mirati, bonus e fondi straordinari.

In tredici anni di passaggi da tribunali a consigli comunali, l’Italia ha visto sfumare un patrimonio industriale ed economico stimato fra i 40 e i 50 miliardi di euro. Nel frattempo, la classe dirigente locale ha giocato su due tavoli: paladini dell’ambiente davanti alle telecamere, negoziatori di aiuti e garanzie di reddito dietro le quinte.

Il risultato è una città che, complice una narrazione di emergenza permanente, sembra aver istituzionalizzato il diritto al salario indipendentemente dalla produzione. La Regione Puglia, pur denunciando l’impatto ambientale dell’impianto, ha firmato progetti di “riconversione” industriale che suscitano più di una perplessità.

Se davvero l’acciaieria è incompatibile con la salute pubblica — ipotesi sostenuta da studi e dati, ma non priva di autorevoli contestazioni — la scelta dovrebbe essere netta: chiudere e costruire, con risorse e competenze proprie, un nuovo modello di sviluppo.

Ma fino a quando prevarrà la logica del compromesso, Taranto resterà sospesa in un limbo in cui salute, lavoro e futuro si neutralizzano a vicenda, mentre il conto lo pagano sempre gli stessi: i contribuenti.


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Quando il Nord perde voce e mercati: l’effetto combinato di dazi e scelte di governo

I dazi americani colpiscono duro e a pagare il prezzo più alto rischia di essere il Nord produttivo. Persino il Fondo monetario internazionale avverte: l’inasprimento delle tariffe commerciali USA penalizzerà soprattutto le aree settentrionali, cuore dell’export made in Italy. Province come Vicenza, un tempo campioni di vendite all’estero, oggi vedono erodersi il loro primato.

Eppure, mentre la questione economica è evidente, la “questione settentrionale” politica sembra scomparsa dai radar. I movimenti e i leader che in passato l’avevano alimentata hanno cambiato rotta o perso peso nell’arena nazionale.

Emblematico il percorso della Lega: Matteo Salvini ha messo in archivio simboli e parole d’ordine del nordismo storico, privilegiando altre battaglie. L’alleanza con figure come il generale Vannacci ha segnato una svolta identitaria, ma è la decisione di puntare sul Ponte sullo Stretto a rappresentare la frattura più netta con la tradizionale base leghista del Nord.

Sul fronte governativo, le risposte alla crisi dell’export appaiono deboli. Il ministro Adolfo Urso ha portato in Parlamento una legge sul made in Italy che, secondo i critici, si limita a promuovere eventi celebrativi e a distribuire riconoscimenti, senza incidere sulla competitività internazionale delle imprese.

Così, mentre i dazi mordono e il Nord industriale perde terreno, manca una strategia capace di coniugare difesa economica e identità territoriale. Il rischio è che, oltre alle quote di mercato, si dissolva anche la spinta politica che per anni ha tenuto alta la bandiera del settentrione produttivo.

Nord Italia nel mirino dei dazi USA

  • Potenziali perdite fino a 37,5 miliardi €: secondo Confindustria, ogni punto percentuale di dazio imposto dagli Stati Uniti potrebbe tradursi in circa 874 milioni € di esportazioni italiane in meno; con un dazio al 30 %, il calo stimato è di circa 37,5 miliardi €.

  • Fino a 140 mila posti di lavoro a rischio: stime parlano di una perdita occupazionale compresa tra 115 000 e 145 000 in settori chiave come moda, farmaceutica, meccanica, agroalimentare. Il 75 % di questo impatto si concentrerebbe nelle regioni del Nord, in aree come Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e Piemonte.

  • Strategie lombarde per contrastare i dazi: oltre la metà delle imprese esportatrici della Lombardia stanno mettendo in campo contromisure, che includono la ricerca di nuovi mercati o l’apertura di filiali e sedi negli Stati Uniti.

  • Agroalimentare settentrionale sotto attacco: in Toscana, i dazi del 30 % minacciano tra le 15 000 e le 18 000 imprese agricole e artigianali, settore vitale per l’economia locale.


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